mercoledì 27 febbraio 2019

Violenza di genere. Un decalogo per i giornalisti per evitare di usare le “parole sbagliate”

In occasione della tappa fiorentina del progetto “Stop alla violenza di genere. Formare per fermare”, promosso dal Gruppo Menarini e accreditato dall’Ordine dei Giornalisti della Toscana presso l’Ordine dei Giornalisti Nazionale. L’elenco delle parole “proibite” è uno strumento pratico per parlare di violenza sulle donne in modo appropriato, pensato per aiutare i media ma anche l’opinione pubblica ad affrontare il tema in maniera opportuna.

Il decalogo delle parole e degli stereotipi sbagliati quando si parla di violenza sulle donne:

Raptus: nessun femminicidio avviene mai all’improvviso, è sempre l’esito di un’escalation di violenza che non è stata intercettata o fermata in tempo. Il raptus non esiste!

Follia: usare questa parola è un modo per dare un alibi al carnefice e ammettere che ci sia in atto una malattia psichica.

Amore malato: questa espressione è un ossimoro, l’amore non c'entra nulla con la violenza.

Descrivere l'abbigliamento della vittima: insinua il pensiero di una colpa umiliando la donna e la sua libertà e di una giustificazione possibile all'atto di violenza da parte di chi la compie.

Descrivere in dettaglio le ferite subite: è un atteggiamento morboso e voyeuristico che provoca soltanto l'amplificazione del dolore nella vittima.

"Era un bravo ragazzo" (un padre premuroso, un uomo buono etc): è come sminuire la versione dei fatti della vittima, giustificare e non credere del tutto a ciò che è successo.

"Se l’è cercata": affermazione che colpevolizzare la donna e giustifica dei gesti che non possono essere in alcun modo giustificati.

"Lei lo tradiva": è un dettaglio privato che non giustifica la violenza e colpevolizza la donna.

"Perché’ lei non lo ha lasciato?" Andarsene per le donne non è mai semplice e i motivi nel restare all'interno di una relazione violenta sono molteplici dalla paura, alla situazione economica ai figli...

"Dare più spazio alle notizie che coinvolgono femminicidi compiuti da stranieri": distorce dalla realtà che vede come autori delle violenze, mariti, compagni, o familiari stretti in oltre il 80% dei casi.


lunedì 18 febbraio 2019


Riflessione sulla CHIUSURA MENTALE



La rigidità mentale indica l’assenza di flessibilità e di apertura, caratteristiche che aiuterebbero il soggetto a riflettere su un ventaglio di diverse prospettive, a sopportare le critiche e a vivere il quotidiano invece che sopravvivere. 
Il termine “rigidità mentale” è usato in psicologia clinica, per esprimere un fenomeno, o un sintomo, o addirittura una caratteristica della personalità.


Il bisogno di chiusura cognitiva non è altro che la necessità di eliminare l’incertezza che si può presentare tramite un pensiero o una situazione. Questo bisogno spinge l’individuo l’individuo a dare una risposta semplice. Quanto più è forte il bisogno di chiusura per non uscire dalla propria zona confort, più urgentemente si cercherà una risposta, indipendentemente dalla sua veridicità.


La violenza quotidiana e’ tornata ad essere uno dei temi cruciali odierni. 
E’ un modo diffuso e disfunzionale di rispondere alla rabbia, alla frustrazione, all'impotenza, alle ingiustizie e ai soprusi, alla mancanza di rispetto e alla paura. 
La sfida più grande che noi dobbiamo continuare a fare come ci hanno insegnato 
Gandhi, Martin Luther King, Mandela, Capitini e tanti altri è quella di cercare di rispondere con la non violenza. Ed è per questo necessario arrivare prima che la violenza diventi l’unica risposta è trovare una nuova via funzionale che sia di aiuto a chi è’ stato colpito dalla violenza sia vittima o abuser.