martedì 20 febbraio 2018

Aspettando l'8 Marzo

Riflessioni





La violenza all’interno delle relazioni d’aiuto è qualcosa di molto complesso, a volte difficile da comprendere anche per i professionisti che lavorano su questo fenomeno quotidianamente. Per cercare di fare un operazione di contrasto e prevenzione i tecnici devono lavorare in rete ed usare un linguaggio e un pensiero comune che condivide metodi e conoscenze scientifiche, poiché nella violenza “la forma è la sostanza”. 

Per una vittima, uscire da una relazione violenta non è il punto di arrivo, l’obiettivo finale, ma il punto di partenza. 

Come molte donne vittime di violenza intrafamiliare raccontano, e gli studi dimostrano, si ritorna facilmente e più volte all’interno di una relazione disfunzionale non solo per problemi economici ma per incastri psicologici che legano la vittima e l’abuser. Tutto questo denota la necessità di un percorso di psicoterapia che porta a superare il trauma della violenza e ricostruire quelle parti di sé smarrite durante il periodo vissuto all’interno della violenza familiare. Il lavoro psicologico va oltre la metodologia dei centri antiviolenza basata sull’empatia e l’aiuto tra donne. Trova conferma questo nuovo pensiero d’intervento nel lavoro che viene fatto nei centri d’aiuto per le vittime dove più spesso anche in Italia le operatrici sono anche psicologhe formate per lavorare su questa tematica, infatti le vittime non si chiamano più “donne in momentanea difficoltà” come si riteneva negli anni 80 ma donne “sopravvissute”. 

Un altro aspetto importante è che ogni figura professionale che opera sulla violenza domestica dallo psicologo, al magistrato, all’avvocato deve avere una conoscenza e un pensiero condiviso con gli altri professionisti sulla così detta “Sindrome di Alienazione Parentale” o “PAS”. Secondo Richard Garden (1985) questa sindrome è una dinamica disfunzionale che si manifesterebbe sui figli minori coinvolti in situazioni conflittuali e di violenza in separazione e divorzio dei genitori. 

Ma, secondo la comunità scientifica e legale internazionale la PAS non ha rilevanza clinica perciò non può essere inclusa tra le malattie psichiatriche. 

Infatti, da una ricerca compiuta in Spagna nel 2008 è emerso che sull’argomento esiste uno scarsissimo numero di lavori scientifici. Nel 2009 le psicologhe, Consuelo Barea e Sonia Vaccaro hanno riportato nel testo pubblicato in Italia nel 2011 “PAS. Presunta Sindrome di Alienazione Genitoriale” che la sindrome è un costrutto pseudo-scientifico che utilizzato in ambito giudiziario genera situazioni di alto rischio per i minori e una involuzione nei diritti delle madri che vogliono proteggerli. 

In Italia nell’ottobre 2012 i Centri Antiviolenza attraverso l’associazione Nazionale D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) hanno affermato in un comunicato stampa che nelle situazioni di violenza intrafamiliare la PAS comporterebbe il rischio di ulteriore vittimizzazione e può essere usata in maniera strumentale dagli autori di violenza per ottenere il controllo sulla donna attraverso la minaccia di sottrazione dei figli. 

In merito il Tribunale di Milano con decreto 11 Marzo 2017 ribadisce che la “sindrome di alienazione parentale” non è una patologia da indagare clinicamente, ma le decisioni si devono basate sul concetto di migliore interesse del bambino. La PAS non farebbe altro che spostare l’attenzione sui figli facendoli passare come malati di mente invece che porre attenzione sui conflitti e addirittura sulla violenza familiare. 

Concludendo affermo che ora più che mai c’è una necessità di costruire reti personali e professionali che abbiano in comune la condivisione di formazioni, informazioni e pensieri per poter agire in modo efficace contro la violenza di genere.