Violenza di genere. Un decalogo per i giornalisti per evitare di usare le “parole sbagliate”
In occasione della tappa fiorentina del progetto “Stop alla violenza di genere. Formare per fermare”, promosso dal Gruppo Menarini e accreditato dall’Ordine dei Giornalisti della Toscana presso l’Ordine dei Giornalisti Nazionale. L’elenco delle parole “proibite” è uno strumento pratico per parlare di violenza sulle donne in modo appropriato, pensato per aiutare i media ma anche l’opinione pubblica ad affrontare il tema in maniera opportuna.
Il decalogo delle parole e degli stereotipi sbagliati quando si parla di violenza sulle donne:
Raptus: nessun femminicidio avviene mai all’improvviso, è sempre l’esito di un’escalation di violenza che non è stata intercettata o fermata in tempo. Il raptus non esiste!
Follia: usare questa parola è un modo per dare un alibi al carnefice e ammettere che ci sia in atto una malattia psichica.
Amore malato: questa espressione è un ossimoro, l’amore non c'entra nulla con la violenza.
Descrivere l'abbigliamento della vittima: insinua il pensiero di una colpa umiliando la donna e la sua libertà e di una giustificazione possibile all'atto di violenza da parte di chi la compie.
Descrivere in dettaglio le ferite subite: è un atteggiamento morboso e voyeuristico che provoca soltanto l'amplificazione del dolore nella vittima.
"Era un bravo ragazzo" (un padre premuroso, un uomo buono etc): è come sminuire la versione dei fatti della vittima, giustificare e non credere del tutto a ciò che è successo.
"Se l’è cercata": affermazione che colpevolizzare la donna e giustifica dei gesti che non possono essere in alcun modo giustificati.
"Lei lo tradiva": è un dettaglio privato che non giustifica la violenza e colpevolizza la donna.
"Perché’ lei non lo ha lasciato?" Andarsene per le donne non è mai semplice e i motivi nel restare all'interno di una relazione violenta sono molteplici dalla paura, alla situazione economica ai figli...
"Dare più spazio alle notizie che coinvolgono femminicidi compiuti da stranieri": distorce dalla realtà che vede come autori delle violenze, mariti, compagni, o familiari stretti in oltre il 80% dei casi.
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