venerdì 4 ottobre 2013

"C'era una volta": le fiabe e la relazione adulto-bambino

Non esiste un bambino che non abbia mai chiesto una fiaba ai suoi genitori, una fiaba che lo porta nello spazio del prodigio



Le fiabe sono strumenti raffinatissimi che facilitano e consolidano la relazione adulto-bambino. Le favole sono richieste dai bambini, non soltanto come gioco narrativo diversivo ma come dimostrazione di attenzione da parte degli adulti, soprattutto nella cerchia familiare.

Possiamo serenamente affermare che non esiste un solo bambino che non abbia mai chiesto una storia ai suoi genitori. Semmai esistono bambini che hanno imparato a non chiederla.

Ciascuno di noi può fare tanto, solo sedendosi e iniziare col "c'era una volta".

Questo incipit universale conduce il bambino nel tempo sospeso della fiaba, quello in cui tutto può accadere, la meraviglia come l'orrore, l'incanto e la malinconia, la paura e l'ardimento, la sconfitta come il meritato trionfo. Si è nello spazio del prodigio.

Lo spostamento del tempo narrativo in un passato-presente è l'artificio che nei millenni i raccontatori hanno forgiato spontaneamente affinché i piccoli ascoltatori potessero vivere accadimenti verosimili seppure irreali e confrontarsi con gli stati d'animo più vari.

L'universo delle emozioni infatti, si dischiude nel cuore dei bambini e la fiaba è la macchina perfetta per far vivere loro la forza di grandi emozioni racchiusa dentro il contorno rassicurante del "patto narrativo" secondo cui tutto ciò che accade è solo una favola e non travaserà nella vita reale del bambino. La potenziale dannosità psicologica dei traumi è filtrata dunque dalla fabulazione. È questo il potere della raffigurazione e della metafora.

Così il bambino può vivere l'identificazione con l'Eroe e compiere ogni peripezia, rischiando una morte letteraria, subendo dolori trasfigurati, ma godendo la gioia del trionfo assieme al suo eroe felice e contento.

Fondamentale è la richiesta della reiterazione. Attraverso la ripetizione della fiaba (sempre uguale a se stessa) passano almeno tre valori di carattere psicologico e cognitivo. La rassicurazione: il genitore è presente e disponibile al dono di una fiaba. La prevedibilità: il testo diviene via via anticipabile dal bambino che ne trae un senso di riconoscibilità del reale e di continuità. La competenza linguistica: il bambino si confronta con le novità lessicali, con le espressioni gergali, con le locuzioni complesse, le metafore, le sonorità paralinguistiche, e tutte le caratteristiche che costituiscono la comunità culturale in cui si trova a crescere. Anche le emozioni vengono così conosciute, riconosciute e nominate, traendo dalla fiaba i meccanismi figurati che le provocano.

Nominare i propri sentimenti è di per se terapeutico.

Tanto le fiabe tradizionali, quanto le produzioni letterarie contemporanee fanno i conti con una radice comune che permette di individuare in culture apparentemente lontanissime la presenza di elementi comuni evidentissimi come la lotta dell'eroe per la riconquista della libertà perduta, l'esaltazione della lealtà, il sacrificio per la collettività, la truffa, la morte e la rinascita, il volere divino e l'azione umana di solidarietà, ed altri innumerevoli elementi che costituiscono il terreno comune delle culture.

Jung sosteneva che le fiabe e i miti infatti fossero l'espressione dell'inconscio collettivo (quella specie di grande bagaglio comune a tutte le persone che organizza le esperienze vissute che si ripetono per molte generazioni con valenza affettiva, definite dallo stesso Jung Archetipi).

I bambini chiedono emozioni da provare, istruzioni per vivere. Ne va del loro sviluppo psichico, della loro capacità di adattamento e di interazione sociale. Nessuno si può quindi tirare indietro dal gioco delle fiabe. Perché raccontarle fa bene ai bambini e a tutti quelli che fanno solo finta di essere grandi.

Lucia Magionami

Psicologa-Psicoterapeuta


 Pubblicato su FRESCO di Web

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