mercoledì 22 gennaio 2014

L'amico è diverso dallo psicologo

Nessuno di noi è medico di se stesso, neppure lo psicologo. Gli amici sono importantissimi, ma non sostituiscono il colloquio clinico. Ce ne parla Lucia Magionami, psicologa e psicoterapeuta



Parlare di sé con un amico o raccontare il proprio disagio a uno psicologo sono due cose molto differenti. Il terreno sembra essere lo stesso, quello del confronto verbale, ma alla base del colloquio specialistico stanno metodi e strumenti precisi e mirati, sta l'assenza di giudizio morale, stanno strategie comunicative e strutture interpretative derivate da secoli di conoscenza scientifica, un cumulo di strumenti sofisticati che il buon senso non può sostituire. Stiamo parlando infatti del colloquio clinico.
Comprendere la sostanza del colloquio clinico e la sua strutturazione è essenziale in una realtà odierna in cui le facili riflessioni e le introspezioni assurgono spesso a diagnosi psicologica, con la forte complicità dei social network in cui ogni immediata intuizione trova un suo credito senza criteri e riscontri obiettivi.
Aumenta così il rischio concreto di illudere se stessi del possesso di capacità auto-analitica e forza auto-terapeutica. Ci si convince cioè di essere il migliore interprete del proprio disagio per il solo fatto di viverlo in prima persona. Chi meglio di me può sapere? E cosa ne possono sapere gli altri? Ma nessuno di noi è medico di se stesso, neppure lo psicologo.
Per quanto sia grande la possibilità di prevenire situazioni di disagio psichico e scivolamenti patologici ben prima che questi insorgano, attraverso una sincera auto analisi critica e la modificazione dei comportamenti, è purtroppo altrettanto vero che quando il disagio incipiente o conclamato non è così facilmente riconoscibile dal soggetto e men che meno da lui risolvibile.
Qui sta la ragione del rapporto con lo specialista nel colloquio clinico e nella successiva azione psicoterapica.
La fase del colloquio clinico non è quindi una chiacchierata fra conoscenti bensì un procedimento di raccolta di informazioni d'urgenza, con criteri di discernimento, selezione, sistematizzazione che mira alla formazione di un quadro clinico il più definito possibile affinché si possa passare alla fase del trattamento psicoterapeutico basato su quei dati e non sulle intuizioni di buonsenso.
Le riflessioni intime e lo scambio amicale possono essere invece un momento di presa di coscienza dei soggetti della necessità di intervenire sul proprio disagio affidandosi al trattamento del terapeuta. In questo senso le chiacchierate tra amici, intime e sincere, hanno un'azione benefica e importantissima perché favoriscono il riconoscimento dello stato di disagio prima che questo possa degenerare. La rete amicale perciò è fondamentale. Per intendersi, propongo un parallelo in ambito medico. Provare forti dolori all'addome può essere sintomo di diverse patologie ma nessun amico può sostituirsi al medico sentenziando diagnosi, impartendo terapie, prescrivendo medicinali; gli amici possono condurci in ospedale ma non curarci.
Quando il soggetto, avvertita la necessità di affidarsi allo specialista, accede spontaneamente al primo colloquio con il terapeuta è nella sua migliore disposizione a raccontare eventi e sentimenti che lo vedono protagonista ad un professionista esterno alla sua condizione, in posizione di terzietà. Il racconto di sé sarà perciò più ampio e libero. È su questo terreno che lo psicoterapeuta riuscirà a impiantare tutta la fase terapica successiva.
Attraverso gli elementi narrativi e i contenuti specifici, il terapeuta punterà a comprendere schemi e forme della psiche, su paradigmi generali e percorsi comunicativi molto complessi ai quali la vita relazionale ed emozionale del soggetto aderisce."Nel primo colloquio non è rilevante per lo psicologo-psicoterapeuta raccogliere le informazioni ma capire il funzionamento della psiche del paziente" (Semi 1995).
Risulta chiaro quindi che il Colloquio clinico è il momento e il luogo in cui si rendono leggibili modalità spesso oscure al soggetto stesso. In questo processo di disvelamento entrano in gioco vari fattori: Alcuni possono sembrare banali come l'assetto della stanza dove viene costruito l'incontro. Il soggetto chiede aiuto per il suo disagio e dev'essere accolto; si comprende perciò che la sistemazione dello studio professionale non è affatto un elemento banale ma è la prima forma di accoglimento e di rispetto. Se lo studio è asettico e spento nei colori può risultare respingente fino ad inibire la disposizione del soggetto all'apertura comunicativa.
Si tratta in sostanza di favorire la costruzione del setting relazionale migliore tra due persone, il soggetto richiedente e il professionista.
La forma comunicativa del colloquio clinico si instaura sul piano verbale e quello non verbale come tutti infondo, comprendendo i segnali paralinguistici come il tono della voce (una persona tendenzialmente depressa, ad esempio, parlerà con voce bassa e lentamente mentre una persona ansiosa parlerà velocemente e con il tono della voce alto). Vi sono poi le posture, la prossemica, la fluidità dell'eloquio e la ricchezza lessicale, la capacità introspettiva, l'uso di forme dialettali, di termini desueti o neologismi slang, in sostanza l'intero mondo comunicativo della persona entra in gioco.
Nel colloquio clinico sono valutate anche le contraddizioni comunicative, elementi di incongruenza tra la maschera e la persona, gioco comunicativo che spesso il soggetto crea nel faticoso processo di affidamento al terapeuta.
Tutte le notizie affiorate e sistematizzate dallo psicologo-psicoterapeuta, lungo questo delicato processo, rivelano la personalità del soggetto e le problematiche che egli vuol risolvere con la sua richiesta di aiuto. È così che la cura riesce a impiantarsi su un terreno accuratamente sondato dallo psicoterapeuta, con scienza e coscienza.

Dott.ssa Lucia Magionami
Psicologa-Psicoterapeuta
luciamagionami.blogspot.com 

Nessun commento:

Posta un commento